Un viaggio in Sicilia per riscoprire e capire la sua isola. Cominciando da Portella della Ginestra, dove nel 1947 si consumò una strage a opera di Salvatore Giuliano, e proseguendo attraverso Ragusa, Agrigento, Palermo, Calatafimi lungo un itinerario sentimentale che mette in luce le “irredimibili” contraddizioni del paese, specchio dell’Italia intera. È la nuova avventura narrativa di Matteo Collura: In Sicilia. Ne abbiamo parlato con lui.
D. La Sicilia. Perché hai sentito - oggi, dopo i tuoi libri precedenti - l’esigenza di questo percorso, di questo “viaggio sentimentale”? C’è un significato anche temporale?
R. Ho scritto molto sulla Sicilia, è vero, ma non avevo mai affrontato sistematicamente il rapporto tra il paesaggio siciliano e il carattere dei suoi abitanti (rapporto che riguarda anche l’etica, il sentire morale). Anni fa scrissi una guida alla Sicilia meno nota. Quel libro (Sicilia sconosciuta) è un utile strumento per viaggiare nell’isola e cogliere aspetti poco noti dal punto di vista paesaggistico, storico, artistico. In questo nuovo libro - di genere narrativo, tengo a precisare -, la Sicilia si fa “teatro del mondo”, luogo fatidico dove tutto - nella storia d’Europa - sembra cominciare o finire (o cominciare e finire insieme). In questo teatro reale e metaforico, qual è il ruolo del paesaggio? E davvero la Sicilia è terra “irredimibile”, a partire proprio dal suo paesaggio come certifica Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo?
D. Modelli d’ispirazione. Una indicazione l’hai data tu stesso : Vittorini, Conversazione in Sicilia.
R. Sui modelli d’ispirazione la risposta è complessa. Sì, Vittorini c’entra, non può non entrarci, ma questo mio libro è stato scritto sessant’anni dopo Conversazione in Sicilia. Io non sono andato alla ricerca di un mito, non sono andato a caccia di lirismi, non ho fatto un viaggio con la Madre. Ho interrogato il paesaggio e gli uomini e le donne che lo abitano. La Sicilia, oltre a rimanere una realtà sociopolitica complessa e problematica, oggi è una sorta di topos letterario, cinematografico, artistico. Ma di tipo folcloristico, indulgente, divertente e divertito. Insomma, a una Sicilia “simpatica” io ho tentato di contrapporne un’altra, più vera: stravolta, avvelenata, irritante, ma sempre affascinante e, quel che più conta, ineludibile.
D. Quanto hai dedicato del tuo tempo a un viaggio reale e quanto hai attinto alla memoria personale?
R. In Sicilia è un libro che avevo dentro. Tutto quanto ho appreso in questi miei cinquantotto anni vi è finito dentro, filtrato da quella che Borges definisce “scienza certa”; quella scienza, cioè, che viene dal conoscere la propria terra, le proprie radici. Il viaggio reale, preparatorio, c’è stato. Ma è stato fatto come alla ricerca delle calviniane città invisibili, sempre presenti nel reale e non meno importanti dell’immediatamente visibile, dell’impatto emotivo, esteriore, epidermico.
D. I Siciliani “inquilini della storia”. È una definizione singolare, interessante. Nella tua storia personale, nella tua vicenda privata, quanto peso ha avuto la nascita siciliana?
R. Essere “inquilini della storia” vuol dire fare i conti con un passato che può farsi incubo, qualcosa di pesantemente condizionante. Se si è nati in una terra come la Sicilia, non ci si può sottrarre alla sua storia, fatta principalmente di conquiste subite, aggressioni, stupri fisici e psicologici. Nel caso della Sicilia il passato impone un confronto che può annientare. Per questo parlo di inquilini della storia bisognosi di uno sfratto. Annullarsi nel presente, farsi omologati consumatori può rappresentare una via di fuga. In alternativa c’è la strada indicata da Pirandello: la follia. Ma attenzione: quella di Enrico IV. Per quanto riguarda la mia nascita siciliana, non credo che essa sia alla base del mio bisogno di scrivere, ma è certo che mi ha influenzato in maniera determinante nella scelta delle tematiche e nello stile.
D. Il libro è ricchissimo di citazioni, c’è un corredo culturale molto importante, sedimentato nella tua memoria.
R. Oltre che una realtà geografica oggettiva, la Sicilia è un prodotto letterario. Non la si può pensare senza chiamare in causa Pirandello, Verga, De Roberto, Brancati, Sciascia. E Tomasi di Lampedusa, lo scrittore che ne ha colto l’anima, l’essenza più intima. Oggi, nella mia piena maturità, posso dire che senza Il gattopardo saprei molto meno della Sicilia. Questo l’ammise anche l’illuminista Sciascia, il quale con Il Consiglio d’Egitto scrisse - così sembrò allora - una sorta di anti-Gattopardo. In realtà, Sciascia non fece che girare intorno a una realtà - presente e storica - da Tomasi di Lampedusa definita “irredimibile”. Spinto dall’ottimismo della volontà di Sciascia, ho voluto verificare fino a che punto la Sicilia possa dirsi irredimibile. Ma sarebbe ingiusto, da parte mia, citare soltanto autori siciliani. Scrittori come Faulkner, Garcia Marquez, Manuel Scorza, Goethe, Borges, Savinio e cento altri di paesi assai lontani dalla realtà in cui sono nato e in cui adesso vivo, mi hanno aiutato a comprendere meglio la Sicilia e a raccontarla.
D. Come si conciliano, nell’economia del tuo lavoro, la tua doppia attività di scrittore e di giornalista culturale? I due percorsi, i due linguaggi, si integrano, si avvantaggiano?
R. La scrittura giornalistica è diversa da quella letteraria. E così dev’essere, perché il giornalismo, quando non è pura cronaca, è mediazione tra le varie scienze e la cosiddetta opinione pubblica. Pubblicare un libro è un atto di presunzione tale che, se tutti quanti ne avessimo sempre piena consapevolezza, le librerie sarebbero meno intasate. Il giornalismo è servizio. La letteratura è arte. Una difficilissima arte che ci rende più gustosa la vita e ci fa cittadini più consapevoli. Nel mio lavoro tengo presente questa fondamentale distinzione.
D. Come hai lavorato a questo libro, come hai organizzato la materia? Scrivendo appunti, registrando testimonianze, fotografando paesaggi, consultando biblioteche?
R. Guardando come in un film la mia vita, tornando in Sicilia e prendendo appunti. Appunti che, tornato a Milano, mi hanno obbligato a rivederne altri vecchi e dimenticati. Faccio il giornalista da oltre trentacinque anni, in cui ho accumulato una serie infinita di esperienze e di conoscenze. Molte di esse riguardano la Sicilia, quella che viene fuori da questo mio ultimo lavoro.
In Sicilia“La casa. Nel rivederla, il tempo, come crollando di colpo, mi è caduto addosso, restituendomi, ingorgate nella malinconia, immagini dolorose. La casa, la sua solitaria miseria, e la nostra, mia e delle mie sorelle, di mio padre e di mia madre, e di mia nonna. Quante volte, nel farmi uomo, mi sarei tormentato con le domande di Mendel Singer, il protagonista del romanzo di Joseph Roth che solo molto più tardi avrei letto?”
Quando un recensore, presunto critico, vuole sbarazzarsi dell’autore che non lo ispira, non lo convince, o semplicemente non è in grado di comprendere, ma di cui bisogna che parli, lo paragona a qualche scrittore famoso. Di solito, più elevato l’altare, minore la stima riservata al dio sconosciuto, o scomodo, che si vuole far salire a esso, e poiché i paragoni sono di natura antipatici, spesso diventano boomerang, sia per chi scrive, sia per chi è descritto. A Matteo Collura, della cui opera non ci si vuole sbarazzare, ma al contrario leggere e rileggere, non si adattano paragoni, soprattutto per questo libro, In Sicilia, apparentemente una cronaca di viaggio, in effetti romanzo. Un romanzo nell’antica accezione, così come sono romanzi La vita di Apollonio di Tiana o il Milione. Infatti, non sempre le storie vere sono più funzionali, rispetto alle inventate, a questo genere letterario, semmai, paradossalmente, non le vere, bensì le vissute raggiungono quei presagi di profondità capaci di traslare la vita in parole, e viceversa. Il dono che plasma i suoni convenzionali della lingua in idee, in azione, non viene regalato, deriva da un percorso iniziatico che può durare a lungo e addirittura non risolversi mai; colui che lo anela sa di doversi umiliare, ma soprattutto sa che le sofferenze incontrate durante il suo viaggio potrebbero restare oscure. Anche se non per sempre. Delle sofferenze di Matteo Collura, del suo percorso iniziatico attraverso le proprie origini di uomo e di scrittore, abbiamo il resoconto vittorioso in questo libro, attraversato da un impeto martellante, marcato da uno stile personalissimo che è dell’affabulatore antico, quel metodo millenario in grado di catturare l’attenzione dell’uditorio accoccolato attorno al fuoco.
C’è molto di parlato in questa prosa che l’autore definisce “scritta a mano”, e c’è nel tono cangiante della voce la traccia delle emozioni, come nella splendida descrizione dell’ingresso in Palermo dove il ritmo sembra rattenere i singhiozzi. O dove l’intercalare del virgolettato cela l’ironia, di rimando a chi voleva essere ironico, come in quell’ “Egregio amico” dispensato dai palermitani ai “piedincretati”, gli stranieri, i siciliani di “fuori”. È un parlato pieno di verbi, di fatti, ma emerge anche la pittura di un’aggettivazione a volte persino barocca, forse perché il sovrabbondare è di questa terra spesso eccessiva, mai monotona, sia nei colori, sia nelle forme, mai scontata come altre realtà geografiche o sociologiche in cui i sostantivi possono bastare a descriverle. Ed ecco che il parlato si trasforma in poesia, alcune frasi sono versi; prima di tutto per la ricercatezza delle immagini, ma in particolare per le cadenze, che sembrano inseguire una metrica aulica.
Non si è riferito finora di personaggi, né di trama, né di colpi di scena. Meglio lasciare al lettore la scoperta del percorso che questo libro compie facendosi romanzo. Ma di uno dei protagonisti vale la pena di dire ancora qualcosa; non è una figura illustre, carnale, è una disposizione letteraria che sorride a pochi: la riflessione. Collura non ci lascia soli davanti a dei simulacri, a degli aneddoti, a delle esasperazioni, egli testimonia e traduce; e traducendo indaga su un aspetto che coinvolge la ragione, o la sua assenza, in molte vicende siciliane. Apprendiamo così che la predilezione per Sciascia non era dovuta solo all’amicizia, ma al forte legame che questo scrittore aveva con la ragione, contestualmente all’irragionevolezza che sembrerebbe prevalere ovunque. La follia, tema cardine di molti scrittori siciliani, erompe dalla sopraffazione, dal sangue sparso quasi con noncuranza, dai manicomi nei quali i pazzi non si sa se siano chiusi dentro o fuori, da una tipologia umana che va da Cagliostro al principe Raniero Alliata, il quale teneva sul proprio tavolo un teschio che “mordeva” una pergamena su cui era scritta una maledizione in aramaico. Collura riflette sulla difficile traduzione della follia in ragione, sembrerebbe una di quelle imprese care a Cervantes, ma restando fedeli al proposito di evitare paragoni, bisogna constatare che se non riesce del tutto, il demerito non è suo. La realtà, a volte, in Sicilia, è troppo al di sopra della fantasia, o dei buoni propositi, per poterla circoscrivere; e non si può operare come Bixio a Bronte, il quale ordinò di fucilare anche il pazzo Fraiunco pur di inseguire un’irraggiungibile giustizia.
Per questo e altro siamo resi consapevoli che si dimostri più coraggio e virilità nello scrivere libri come questo di Matteo Collura, piuttosto che nell’eseguire massacri, specialità non solo siciliana, purtroppo, bensì della follia in genere.
In Sicilia di Matteo Collura
221 pag., Euro 14.00 – Edizioni Longanesi (Il Cammeo n. 410)
ISBN 88-304-2089-1
