
Devo ammetterlo. La cosa che più mi piace a questo mondo è considerata da molti superlativamente indecente.
A me piace rimanere indisturbata a guardare. Non esattamente una natura immobile. Al contrario individui viventi nella manifestazione della loro vitalità. Mi piace poggiare lo sguardo a lungo, senza intenzioni. Mi piace che mentre osservo l'oggetto non sia in grado di sottrarsi alla mia vista.
Ripeto che il mio guardare è vuoto di qualsiasi intenzionalità e incapace di profonda penetrazione. Mi fermo alla pelle, al puro involucro sensoriale, perchè le interpretazioni acute non mi tentano e persino mi disturbano.
Eppure, nonostante questa liquida superficialità, - sarà forse la durata che quello sguardo pretende - non c'è essere umano che sia in grado di tollerarlo. La gente sembra credere - tutti senza distinzione alcuna - che uno sguardo prolungato, anche se non intenso, porti via la bellezza, ottunda l'intelligenza, strappi brandelli d'anima e di vita.
Sono priva di difese di fronte a un simile sospetto, che mi offende al punto da fare allontanare i miei sguardi dalla specie degli uomini. I miei sguardi si ritraggono umidi, come le piccole corna di una lenta lumaca.
Per sopravvivere, visto che il soddisfacimento di questo piacere mi è vitale, mi sono messa alla ricerca di individui - umani esclusi - che facciano al mio caso.
Si incontrano tempi e luoghi adatti a ogni libertà ed ogni gusto finisce per trovare la sua corrispondenza. Finalmente anch'io ho trovato.
Da quando ho fatto la mia scoperta - se soltanto potessi permettermelo, se non avessi pesanti impegni da rispettare ogni giorno - quotidianamente mi dedicherei al mio piacere che invece sono costretta a circoscrivere a particolari giornate quando, pagato il modico prezzo di un biglietto d'entrata e superata la corta barriera d'ingresso, m'introduco nello zoo. Quello spazio, nato per istituzionalizzare lo sguardo su individui viventi, legittima la ricerca di quel piacere altrimenti impossibile e insieme mi scioglie dai lacci di giudizi e congetture, che solo gli umani impongono.
Oggi, come sempre nelle giornate che scelgo, lo zoo è verosimilmente tutto per me. Pochi guardiani in tuta verde sfamano gli enormi orsi polari con misere pere Williams (mi chiedo quante ce ne vorranno) e i leoni con quarti di animali in precedenza macellati, sottraendo in tal modo ai felini il sapore di preda che maggiormente apprezzerebbero.
Osservo e vado oltre perchè non è certo per loro che vengo allo zoo. E' per il mio gibbone. In questa mattina d'inverno tiepida e asciutta - lo so - lui sarà disposto a farsi guardare. Io starò senza distogliere la vista, a lungo quanto voglio e senza pentirmi, senza arrossire.
La sua gabbia si trova un po' separata dalle altre, presso recinti stracolmi di pollame dal piumaggio rossiccio. Vicino al gibbone non c'è altro. Gli altri primati si trovano presso l'ingresso principale, nello spazio delle grandi attrazioni. E' per questo che, con grande soddisfazione del mio esclusorio desiderio, anche questa mattina gli scarsi visitatori dello zoo dimenticheranno il gibbone.
Eccolo! Somiglia ad un piccolo uomo agilissimo. Non ha un filo di grasso, non una piega sgraziata della pelle. Il tipo che piace a me, a differenza di altri gibboni, non ha sulla testa quel ciuffo di colore differenziato che viene chiamato cappuccio. Il mio gibbone ha un'apparenza nuda e casta, come i veri atleti.
Di fronte alla gabbia, a giusta distanza, è collocata una panchina di pietra. Mi siedo lì, proprio davanti al trapezio che scorgo tra alberi alti e arbusti verdeggianti, da dove il gibbone che mi ha subito notata, mi rivolge due o tre silenziosi volteggi. Resta quindi accovacciato sul trapezio, le lunghe braccia avvolte alle corde laterali.
Nel vederlo così pronto a compiacermi decido di utilizzare l'ingenuo tranello di una piccolissima provocazione. Ho già pronto nella borsa un nastro dove - l'ultima volta che sono venuta a trovarlo - ho inciso la sua voce. Con discrezione, restando quasi immobile, a occhi semichiusi, accendo il registratore.
Lo provoco così con brevi urli cadenzati che sono i suoi stessi urli. Ma poichè provengono da me, lui è convinto che quella voce sia la mia. E quella voce, la voce mia-sua, lo esalta. E mi risponde, mi risponde!
La voce del gibbone somiglia a un canto. Affannoso in principio come un rullio acceleratissimo cresce di ritmo e di forza fino a frantumarsi in un gorgheggio vittorioso.
E' un richiamo potente. Ogni volta mi fa venire la pelle d'oca e mi stringe un nodo alla gola, oggi più che mai per quel sospetto di risposta, di corrispondenza che così leggermente ho provocato. L'urlo però non è tutto. se insieme io non tenessi gli occhi aperti su di lui che si muove, l'urlo non produrrebbe su di me il pervadente piacere che provoca. Come l'urlo esce pulito e netto, senza fatica, così il corpo del gibbone si lancia in evoluzioni acrobatiche in cui la mancanza di sforzo e di artificio mi incanta. I suoi salti al trapezio terminano in un gesto orgoglioso, il braccio destro alto sulla corda, il sinistro sul fianco.
Vorrei un'ulteriore evoluzione. Ma lui s'è fermato e mi fissa a sua volta. Pretenderebbe, ne sono certa, gli dimostrassi a parole il mio entusiasmo. Però non s'incupisce se, come mi piace, rimango in silenzio.
Lo guardo e mi guarda.
(Piera Mattei)
Il gibbone in Piera Mattei, Malinconia animale, Manni, 2008 [ * ] [ * ]