
Voglio raccontare qui le mie impressioni di lettore. “Sic et simpliciter”. Come mi vengono.
Spesso, infatti, considero questo scrivere “recensioni” quasi come un compito. Non lo dico perché mi pesi, ma soltanto perché, ogni volta che leggo le cose scritte in questo spazio da tutti gli altri lettori, ho la sensazione che i miei pezzi siano più scolastici di quelli degli altri. Così, questa volta, cerco di cambiare.
All’inizio della lettura, ho trovato il libro un po’ pesante. Non fa parte della saggistica, e difatti è un romanzo – anche se considerarlo solo romanzo mi pare un po’ riduttivo – eppure mi ci sono volute 60, 70 pagine per riuscire ad ingranare nella storia, a scenderci dentro.
Poi, la lettura è diventata più piana e scorrevole, soprattutto perché la storia, meglio “la saga”, della famiglia Peruzzi si è fatta più interessante.
Il racconto è di quelli che – a d uno come me, che ha passato una splendida vacanza campagnola a Pontinia, nel casale di un collega di mio padre, con i suoi figli Tato e Rita (lei un po’ più grande di me, il fratello coetaneo o forse di un anno più grande) – fanno tornare in mente i diciotto anni. E allora, un po’ per questo mood, un po’ per cambiare l’andazzo di queste cronache di lettura, alle quali pensavo mentre leggevo, mi sono lasciato prendere, e quindi appassionato alla vicenda.
Soprattutto, una cosa mi ha attratto molto della narrazione (l’autore interpreta un io narrante che racconta a chi legge la vicenda di questa famiglia, e nel bellissimo finale, si ha la conferma che quella famiglia fosse la sua): è stato il dialetto che i personaggi adoperano nel parlare tra loro. Un dialetto ibrido, misto di veneto, friulano e ferrarese. Dialetto col quale Pennacchi da ai personaggi il loro colore, le loro personalità. E forse in questo, Pennacchi dimostra uno stile speciale, un po’ come Camilleri con il commissario Montalbano. Uno stile, appunto, pieno del tratto di chi abita quelle terre, o vi è vissuto.
E tutta la vicenda fa immaginare cosa debba aver provato chi è stato costretto ad abbandonare la propria terra natia e venire a lavorare in un'altra regione, molto diversa, e con abitanti che dileggiavano proprio il loro modo di parlare (“i cispadani”, li chiamavano).
Il libro è la famiglia Peruzzi: i nonni, cioè i capostipiti, poi tutti i figli (Temistocle e Pericle, i protagonisti, i più presenti, ma poi anche Adelchi, e infine – protagonista anche lei – Armida, la moglie di Pericle). Come sempre non voglio raccontare la storia, per non togliere il gusto a chi legge il libro.
La seconda caratteristica è l’aspetto di documento storico che il libro presenta, raccontando vicende che la maggior parte di noi non conosce, anche se quei tempi li ha vissuti. A guardarlo come romanzo storico, questo libro lo accosterei per importanza a “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, e a “I vicerè” di De Roberto. Sicuramente non è da meno di quei romanzi nel descrivere i tempi di cui racconta, con la differenza che parla dei tempi nostri, quelli che abbiamo vissuto senza conoscerli, proprio perché scuola ed altre fonti ce ne hanno parlato sempre poco,
La caratterizzazione che del fascismo (nascita e sviluppo) viene fuori dal racconto è stata per me molto nuova: debbo dire che – dal lato storico – sono discretamente ignorante. E questa caratterizzazione ha gettato su quel periodo una luce molto diversa dalle iconografie che ciascuno di noi, al di là del suo credo politico, ha in mente. Ne viene fuori un regime come gli attuali, vissuto attraverso i discorsi dei Peruzzi. Un regime bonario, che si conquista l’amicizia di gente povera e che fa loro pensare di averli beneficati in un momento difficile della loro vita di contadini.
Ma questa caratteristica è resa ancor più intima – e forse più credibile – dal fatto che i nonni Peruzzi conoscevano il Mussolini, che li veniva a trovare – prima di diventare il capo del governo, da socialista – perchè affascinato dalla nonna Peruzzi. E dal fatto che uno dei fratelli – mandato a dar lezione ad un prete troppo buono coi poveri si trova coinvolto nel suo omicidio.
E’ però pur sempre la prima delle due caratteristiche – quella che me lo farebbe definire un romanzo storico dialettale – a prevalere, sia nelle vicende che portano i due figli Peruzzi a partire per la guerra d’Africa, dalla quale ne torna uno solo, Adelchi, mentre il Pericle scompare, e di lui non si sa più nulla. E l’attenzione, da qui in poi, si sposta sull’Armida, che diventa vera protagonista della terza parte del libro. L’Armida e le sue api – le “appi”, nel dialetto della famiglia – con le quali lei addirittura parla, interpretandone i ronzii come risposte…
È questa caratterizzazione dei personaggi a rendere il libro bellissimo, a mio avviso, e a farne alla fine un vero capolavoro da semplice narrazione della vita di un gruppo sociale contadino, negli anni dal 1920 ai primi anni ’50. Un libro che va letto, e che merita i premi che ha già cominciato a prendersi, come lo Strega di quest’anno.
(Lavinio Ricciardi)
Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, 2010 [ * ]
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