Slealmente, parto dalla fine, cioè dall’impressione che il pensiero di Serge Latouche lascia in un lettore prudentemente diffidente e mediamente intossicato dal consumismo (come io certamente sono). Di una insidiosa semplicità. Da una parte, è un pensiero cosiddetto debole, privo, anzi, quasi indifferente, a riferimenti metafisici ed alle categorie filosofiche tradizionali; dall’altra, gli si deve riconoscere una suggestiva e moderna sintesi dei grandi temi sociali. Una ricetta irresistibile per gli entusiasti, un involucro fin troppo fragile da smantellare per gli scettici. E, infatti, il pensiero della decrescita rischia, per molti aspetti, di risolversi in una moda irritante, da ricchi “convertiti”. Se ne vedono già, anche in televisione (e, qui, diffidare diventa indispensabile), i suoi non dichiarati adepti: dopo essersi ubriacati del lusso anni ottanta, aver comperato tutto l’high tech disponibile degli anni novanta e girato il mondo con i più assurdi mezzi di trasporto, ci insegnano a fare il pane in casa, a tenere l’orto, ad avere un solo paio di scarpe per volta. Eppure, nonostante questi temi provengano dalla filosofia della decrescita, essi non la esauriscono. Un metodo di indagine sempre valido è quello di cominciare dalle soluzioni semplici (che poi significa intellettualmente oneste, non facili da realizzare): il pensiero cosiddetto della decrescita ha questa impostazione.
Secondo Latouche “decrescita” è, innanzitutto, uno slogan, una parola rivoluzionaria... anche se, in verità, il temine non è coniato dall’autore e, secondo lo stesso, è impreciso: sarebbe meglio parlare di a-crescita, come si parla di a-teismo. E’ l’indipendenza (anche) morale della società dall’idea ossessiva che il progresso, il benessere (inteso nel senso dello star bene) dipendano dall’aumento del prodotto interno lordo. La parte più suggestiva, in questi tempi cupi di “Gomorra” e di economia della mafie e della finanza, è l’analisi impietosa e veritiera della composizione del P.I.L.: l’inquinamento, la cementificazione selvaggia, gli incidenti, le cure per le malattie causate dallo stesso “progresso”...tutto questo è P.I.l.
L’altro caposaldo della definizione è l’idea semplice ed antica che non si possano pretendere risorse infinite da un pianeta finito: la crescita si arresterà naturalmente all’esaurimento delle materie prime e dell’ambiente abitabile, causando, comunque e a maggior ragione in una società crescita-dipendente, il disastro finale.
Gli elementi determinanti di questo pensiero sono contenuti in tre passaggi progressivi: non si può crescere all’infinito, è possibile un modello alternativo, il modello alternativo non è una rinuncia, ma un miglioramento. E’ un pensiero che non ha bisogno di Dio (anche se fra i precursori citatissimi di Latouche c’è quell’Ivan Illich, non solo credente, ma addirittura sacerdote della chiesa cattolica) e neppure della politica: ha la pretesa di appartenere talmente alla verità del genere umano da non aver bisogno di queste distinzioni.
D’altra parte, secondo Latouche, il socialismo non si sottrae alla follia produttivista e, anzi, in alcuni casi, la propaga con maggiore violenza ed intransigenza dello stesso capitalismo.
Questo non fa che aumentare il potenziale seduttivo di questa filosofia, se così la possiamo chiamare: in una società disperatamente affamata di soluzioni umane e non politiche, che vengono percepite come sovrastrutture.
Tuttavia, si tratta di un pensiero radicale, sotto certi aspetti, che impone l’abbandono di qualsiasi via di mezzo, un pensiero, per intenderci, che non ha niente a che spartire con il PD veltroniano, con Obama, con la maggior parte delle onlus e delle organizzazioni terzomondiste...con molte delle cose, insomma, che rappresentano la speranza per le nostre menti progressiste. Lo sviluppo, così come lo intendiamo, in senso strettamente economico e, appunto, legato al fatidico PIL è finito. Lo sviluppo “sostenibile” non esiste: la stessa idea va combattuta come menzogna.
Qui si entra nel vivo del programma e nei passaggi concreti della sua attuazione. Un nucleo di proposte sono già affini alla nostra mentalità nuova, un po’ indotta dalle mode verdi, un po’ dai drammi dell’inquinamento. C’è l’idea della produzione locale (così non si trasportano le merci, non si specula sul lavoro poco tutelato, si controlla meglio la genuinità dei prodotti, si riscoprono le radici e le tradizioni), insomma, il tanto osannato “chilometro zero” che mette d’accordo le amministrazioni leghiste con quelle della sinistra radicale, i ristoranti di alta gastronomia e le mense scolastiche. C’è l’idea della politica locale, che rappresenta la vera partecipazione dei cittadini: essi si mettono a disposizione della collettività e del bene comune, non per professione, ma per senso di responsabilità e necessità. Ridurre, riutilizzare e riciclare sono anch’essi dei principi abbastanza condivisi: dalla riduzione degli imballaggi, al contrastare quei tipi di produzioni “programmate” per creare oggetti a tempo, che non possono essere riparati, per spingere a nuovi acquisti, l’idea di una politica dei rifiuti rigorosa che non migri verso le soluzioni tecnologiche (gli inceneritori) ma verso il recupero totale. Via via verso una condotta sempre più ascetica, volta all’essenziale, al compatibile con la natura, alla condivisione sociale. Ma una società della decrescita non si limita ad alcune scelte, si spinge, come detto, nella direzione di una rivoluzione culturale, di un cambiamento di rotta. Richiede secondo Latouche un uomo nuovo, un’adesione spontanea e attiva. Riconcettualizzare e rivalutare sono passaggi diversi dagli altri perché implicano un consolidamento della coscienza, non un semplice “fare”. E così “scegliere” la decrescita, e non subire la recessione, significa rinunciare ad essere ciò che si è. Per Latouche è una conquista: il tempo dell’affettività, della cultura, della solidarietà che si impone sui valori della produzione, della carriera e, quindi, del lavoro. Si deve lavorare poco (il meno possibile) e lavorare tutti; ci deve essere un limite alla possibilità di guadagnare... La spinta ai consumi deve essere contrastata e, quindi, nella società della decrescita, non c’è posto per la pubblicità, considerata una specie di male assoluto. Ma anche la cultura è qualcosa di radicalmente diverso rispetto a come l’abbiamo concepita sino ad oggi: il viaggio per piacere, considerato strumento di conoscenza e di crescita, rappresenta un aspetto consumistico, riprovevole come allestire la stanza da bagno con i rubinetti d’oro. Anzi, peggio...Pochi usano l’oro per rifarsi il bagno, mentre milioni di viaggiatori invadono il mondo con i voli low cost e last minute, non solo lo inquinano pesantemente, ma contribuiscono a diffondere modelli culturali dall’impatto devastante. Lo stesso uso della tecnologia, se da una parte evita gli spostamenti antiecologici, dall’altra, a causa della rapida evoluzione di questi mezzi, riempie la terra di scorie. Non è un mistero per nessuno che queste scorie finiscano nelle zone del mondo più disagiate, dove vengono recuperate da lavoratori che, invece di rovistare cibo e vestiti nella spazzatura, spesso, senza protezione per loro e senza tutela dell’ambiente, rimestano materiali pericolosi per la loro salute...Scegliere la decrescita è uno stile di vita personale (fino alla ‘paranoia’ di farsi lo yogurt da soli), è un programma politico insieme locale e mondiale. E qui il pensiero di Latouche si fa sostanzioso e impegnativo, suscitando, insieme, le maggiori perplessità, ma anche un sentimento di urgenza.
Anche se si dà grande enfasi all’atteggiamento personale, alla demolizione dell’immaginario consumista in favore di una nuova sobrietà, alla maggiore attenzione, quasi evangelica, di ciascuno per i propri simili anziché, come avviene ora, per i propri bisogni...date le implicazioni con l’industria, la finanza, l’economia, una società della decrescita ha bisogno di scelte politiche impegnative. Il primo cambiamento richiesto, infatti, è una strenua lotta all’inquinamento, il quale ultimo - è lo stesso Latouche a riconoscerlo - non rispetta i confini degli stati e quindi può essere affrontato solo a livello globale; il secondo è l’uscita dalla società lavorista, con una trasformazione del mondo del lavoro che, senza intaccare i livelli di occupazione, dovrebbe segnare l’abbandono dello sfruttamento del terzo mondo e delle produzioni inutili, inquinanti o superiori ai bisogni reali. Un sistema che vede il momento elettorale come un passaggio importante, ma non fondamentale: l’attuale politica politicante (così definita da Latouche) è fatta di “burocrati del sistema capitalistico”...Votare un partito piuttosto che un altro è importante (non si deve certo votare per lo sfruttamento selvaggio) ma non determina il cambiamento sociale. Un partito della decrescita finirebbe per imbastardire il progetto, offrirlo sul tavolo della mediazione; mentre l’abbandono del terreno democratico, pur con l’imposizione di misure strettamente ecologiche, potrebbe portare alla deriva dell’eco-fascismo.
Il pensiero di Latouche è necessariamente movimentista, affida alla pressione sociale sui politici e sulle industrie il cambiamento epocale che si propone.
Una trasformazione culturale ha bisogno di tempo e di un clima favorevole per “attecchire”: l’ambiente che ci circonda non lo è, nonostante lo spettro della crisi economica. I lavoratori sperano nell’aumento della produzione e nella salvaguardia delle loro competenze, sono preoccupati delle restrizioni del credito...Inoltre, Latouche semplifica la decostruzione dell’immaginario, quasi si trattasse di abbandonare il male per il bene (il che, già, non è semplice). Ma difficilmente una società è un male assoluto, quasi sempre esprime una sua etica (reale, non solo fittizia e indotta) e una sua estetica. In epoche crudeli, sono sorte piramidi, cattedrali, religioni e filosofie, scoperte scientifiche e miracoli di ogni sorta. La nostra non sfugge alla regola. Il progresso scientifico, l’acculturamento delle masse, anche attraverso strumenti deprecabili quali la televisione ed i viaggi economici, hanno spalancato prospettive a larghe masse: di curarsi la salute, di vestirsi bene, di imparare, di fare cose interessanti e nuove. Non solo, esiste un attaccamento alle proprie competenze (nella ricerca scientifica, nella moda, nella pubblicità, nel turismo) che, da una parte, non è neppure strettamente collegato alla ricchezza, ma ad una percezione del proprio valore anche come essere umano. Se non possiamo spazzare via questo inquinamento spirituale con la forza (né lo consiglia Latouche, certamente), davvero possiamo pensare che, nello spazio breve che la predazione della terra ci lascia, milioni di persone rinunceranno ad essere ciò che sono? Ai loro sogni, divertimenti, speranze? E non si tratta solo di fashion victims o di fanatici del lusso...Latouche ci dice che il sostegno americano al mercato dell’auto è sbagliato, che il lavoro delle organizzazioni terzomondiste è (spesso) sbagliato. E l’interdipendenza di fattori locali e globali? Persino le produzioni di nicchia (un concentrato di saperi locali, “buoni”) esistono e sopravvivono anche perché qualcuno, a Dubai o a Pechino (globalizzazione, “cattiva”), vuole consumare delicatezze della campagna francese o toscana. Applicare la decrescita spontaneamente e senza mediazioni significa smantellare la nostra identità. Sicuramente un’identità malata, nient’affatto inclusiva di alcune fasce della popolazione locale, per non parlare di quella mondiale, ma pur sempre un’identità. E ancora...ammesso che in alcune parti del mondo, cosiddette democratiche (con tutti i limiti di questa parola, di cui siamo drammaticamente coscienti), fosse possibile una tale applicazione, essa non ci renderebbe più fragili ed esposti rispetto a culture rese aggressive oltre che dalla comune mitologia del P.I.L. anche dalla repressione delle forme democratiche? Afferma Latouche che, inaspettatamente, l’India e la Cina si stanno rendendo conto dei rischi insiti nella predazione dell’ambiente e si stanno dimostrando più disponibili delle “plutocrazie” a sottoscrivere impegni e adottare nuove tecniche salva-pianeta. Purtroppo, questo non va di pari passo, però, con la libertà: ci saranno paesi dove sarà proibito inquinare, come lo è avere più di un figlio, tenere un cane o professare una certa religione. Davvero possiamo rallegrarci di questo? Non è questo l’ecofascismo che Latouche stesso paventa?
Latouche, in alcuni passaggi delle sue opere, definisce la decrescita come un’utopia. Può sembrare una contraddizione e, invece, può essere la chiave di lettura che lancia questo pensiero nella nostra società e gli permette di mietere frutti. Materiale di riflessione, provocazione, esame di coscienza. Apertura mentale a scelte alternative (invece di...forse posso anche) di fronte a problemi nuovi. Rivalutazione ed inclusione di culture differenti e diametralmente opposte alla nostra, senza che questo comporti una accettazione acritica. Un’utopia “umana” che, non avendo una divinità od una finalità di classe alla propria base, può essere elaborata, rimaneggiata, persino disattesa, se non funziona. A dispetto della sua intransigenza, è nella dimensione immanente e nella pragmaticità delle soluzioni che risiede l’appeal del pensiero di Latouche. Non c’è bisogno di “fanatismi” (ne abbiamo già abbastanza), ma di soluzioni nuove. Sotto questo profilo, il suo libretto (rosso, nell’edizione italiana, Bollati Boringhieri 2008) Breve trattato sulla decrescita serena ce ne offre a centinaia: buttarlo via sarebbe un errore, adottarlo come un dogma una sciocchezza. Ma leggerlo - prima di votare, di acquistare, di agire - leggerlo sì, può essere importante.